![]() articolo di Arnaud TOURE, seminarista, 3 anno di teologia Dopo quattro anni di presenza in Italia, mi sono accorto che il 90% delle mie letture sui sempiterni problemi dell'Africa è opera di persone non africane. Se quest’abbondante letteratura dei cosiddetti “esperti” dell’Africa è da non disprezzare, mi sembra giunto però il momento per gli africani di portare una modesta pietra all’opera di ri-costruzione del continente nero. Tentare di trovare una soluzione duratura ai disperati pronostici sull’Africa, alle drammatiche immagini che vengono spesso in mente alla gente comune alla sola evocazione della parola Africa, è una sfida che chiama ogni figlio di questo continente e spinge urgentemente e sinceramente a riflettere sulla vera radice dei problemi. Dopo varie diagnosi, una più inefficace dell’altra, il male dell’Africa trova secondo me la sua vera origine qui: l’Uomo. Individuare nell’Uomo la sorgente delle difficoltà che vive il continente è certamente la strada più difficile, ma probabilmente quella più sicura. Vorrei semplicemente aiutare ad individuare il problema, lasciando a menti più esperte la proposizione di soluzioni. L’Africa di certo non è un paese omogeneo. Attraversando il continente da una parte all’altra si incontrano vegetazioni diverse, così come popoli con lingue, costumi, culture, e caratteristiche fisiche altrettanto diversi. Ma cosa hanno in comune il Senegal e lo Swaziland, la Guinea Equatoriale e la Costa d’Avorio, il Mozambico e il Camerun se non l’oscuro quadro di malattie, disoccupazione, povertà, de-scolarizzazione con i quali vengono dipinti? Perché le varie realtà che possiede quest’immenso continente condividono il comune denominatore delle crisi socio-politiche che non hanno altro risultato che il vergognoso ultimo posto di tutti continenti a indice di sviluppo umano? Il problema è proprio lì secondo me: nell’Umano, nell’Uomo africano. L’Uomo africano, non quello che le teorie razziste presentano come discendente di Cam, figlio maledetto del patriarca Noè. L’Essere africano di cui parlo è il frutto di un violento incontro culturale. Infatti l’incontro culturale tanto auspicato e osannato per l’arricchimento reciproco che porta in sé come promessa, nasconde ben spesso il subdolo e insospettato veleno della metamorfosi antropologica generante da parte sua incomprensione, crisi, rivolte che non hanno altro risultato se non guerre, distruzione, miseria e sottosviluppo cronico. È questo, purtroppo, il caso di molti paesi africani, il cui incontro con la cultura occidentale attraverso la colonizzazione, lungi dal portare pace e stabilità, ha sconvolto tutta l’infrastruttura antropologica e di conseguenza quella politica e economica. La frattura introdotta nella società africana è secondo me il principale fattore che ritarda ancora un vero slancio socioeconomico di questo continente. È incontestabile il fatto che pace sociale e sviluppo socio economico affondino le loro radici nell’Uomo. Prima di ogni altro fattore (naturale, scientifico, ecc) è dall’Uomo che parte tutto. È lui il pilastro fondamentale sul quale costruire ogni società. È l’Uomo che pensa, pianifica, proietta, sceglie, organizza, sviluppa, ecc. in base ai valori superiori della sua vita. È partendo dal modo in cui pensa e vive, dai valori a cui tiene, dalle sue idee sul bene e il male; insomma è a partire dalla sua cultura che si articola ogni programma sociale. Tuttavia che questa cultura venga violentemente sconvolta e ci si ritrovi davanti ad esseri disorientati, senza punti di riferimenti certi a partire dai quali avviare una vera politica di sviluppo è un dato di fatto. Tale è la tragica situazione che vive oggi la maggioranza dei paesi africani oggi schiacciati tra tradizioni africane e cultura occidentale. La diagnosi sul continente nero ci mostra un popolo profondamente ferito nel suo essere, totalmente stordito dalle molestie di tre pressioni culturali. Porta in sé il DNA della propria cultura, soffre ancora i postumi del colonialismo che lo voleva assimilare all’europeo cancellando le sue culture millenarie e si trova già soffocato dalle iniezioni subite dalla nuova cultura della globalizzazione. Siamo quindi spesso dinanzi a persone senza riferimenti culturali saldi. Non è raro vedere nelle città africani con una mentalità e stile di vita totalmente occidentali. La situazione diventa ancora più drammatica quando costoro si trovano a dover coprire ruoli attivi nella gestione dello Stato, nella misura in cui il loro modo di vedere le cose diverge drasticamente della maggioranza del popolo. Da quest’incomprensione hanno spesso origine i conflitti politici e la difficoltà ad innescare vere politiche di sviluppo condivise e sostenute da tutti. Un’esperienza vissuta l’estate scorsa mi ha fortemente colpito. Dopo tre anni di presenza in Italia sono andato a casa per le vacanze. Tra un giro e l’altro a salutare parenti e amici secondo le consuetudini ivoriane, vado a trovare una coppia di amici con i quali ho fatto l’università. Vivono in una lussuosa villa ultramoderna nel quartiere chic di Cocody. Hanno trovato lavoro subito dopo la laurea, lui in banca e lei in ditta; guadagnano bene insomma. Appena entrato mi presentano al loro figlio di sei anni che mi dice: « Ecco il tonton1 che studia in Italia, di cui ti abbiamo parlato ». «Italia, vicino alla Francia » esclama il bimbo! Mi ha chiesto poi: «Sei mai andato a Disneyland a Parigi? Papà ha promesso di portarmi lì l’estate prossima». Davanti alla mia sorpresa, il padre: « Ha visto la pubblicità su canal-horizons2 e da allora non fa altro che chiedere di andarci. Pensiamo di fargli questo regalo le prossime vacanze». Stupito dal fatto che un ivoriano di sei anni sogni questa cosa, mi sono messo a fare qualche domanda dopo lo scambio di notizie. Dopo un’ ora in quella casa mi sono accorto che il figlio dei miei amici non guarda altro in TV che i canali francesi e americani, è esperto di playstation e gameboy. Parla benissimo il francese e abbastanza bene l’inglese. Quando ho provato a parlare baoulé - l’etnia di suo padre - con lui, mi sono reso conto che non l’ha mai sentito; non parla nemmeno attié, etnia della madre. Capisco che i genitori essendo di etnie diverse devono parlare francese tra di loro per capirsi, ma che il figlio parli soltanto francese mi è sembrato degno di nota. Indagando più a fondo mi sono accorto che non ha mai messo piedi nel villaggio del padre e ancora meno in quello della madre. Pensavo di essere alla fine delle mie sorprese, ma quando siamo passati a tavola, ho scoperto che i suoi gusti culinari non sono di certo foutou, placali, kongoné3, va matto invece per patate, quiche, cassoulet, pizza, e altro choucroute garnie. Insomma è ivoriano e africano solo di colore di pelle e cognome, per il resto avevo l’impressione di esser con un bimbo di Parigi o Bruxelles. 1 zietto 2 Catena di canali TV privati francesi. 3 Piatti tipici ivoriani 1 Visto che è molto bravo a scuola, tra l’altro una scuola internazionale lì ad Abidjan dove si seguono programmi francesi e americani, ha i genitori benestanti; di sicuro andrà a studiare quando sarà più grande in qualche università francese, americana o canadese. Tornando in patria - sperando che torni - avrà probabilmente un lavoro di dirigente in qualche azienda o nell’amministrazione. Si troverà magari a gestire migliaia di persone che non sono cresciute come lui. Si presume già lo scontro che nascerà dalle decisioni agli antipodi del pensare comune che prenderà. Il caso di questo ragazzo è la fotografia dei tanti ragazzi e ragazze che crescono oggi nelle città africane, i quali, sebbene costituiscano una minoranza, saranno i leader africani di domani perché rispetto alla stragrande maggioranza dei loro coetanei hanno tutte le possibilità di studiare e formarsi bene. Il fatto è che non sono né pienamente africani, né pienamente occidentali. Sono totalmente sradicati della cultura e dalle realtà in cui vive la maggioranza dei africani. È proprio quello che un evento recente mi ha dato l’occasione di verificare. Uno stato africano celebrava la sua cinquantatreesima festa d’Indipendenza. 53 anni: bella età! Mezzo secolo! Quasi una vita insomma. Sono corso la sera su internet per vedere come era andata la cerimonia. Solite immagini da ormai tanti anni: uomini in giacca e cravatta, donne in “tenue de ville” poi, solito arrivo del capo di stato, solita sfilata militare e solito rinfresco con tanto di champagne e “petit four”; insomma propria una copia del 14 luglio francese. Niente che faccia pensare a qualche tradizione di qualche popolo di quello stato. Niente che richiami il modo di fare festa della maggioranza dei africani. Fin qui niente di drammatico. Il fatto è che era riunito lì tutto il fior fiore della politica di quello Stato, cioè tutti quelli che in un modo o l’altro sono chiamati a decidere per i milioni di abitanti. Mi sono accorto di come a volte i dirigenti africani possano avere modo di vivere e di pensare agli antipodi dei popoli che sono chiamati a governare. Benché nati e cresciuti in Africa, la maggioranza dei governanti africani ha ultimato la sua formazione in Europa o in America, frequentando spesso le migliori università occidentali. A loro ritorno, sapendo leggere e scrivere in un mondo che non tollera l’analfabetismo, si sono ritrovati alla guida dei vari stati. Formati all’occidentale e dovendo prendere decisioni che rispondono a criteri occidentali di governo, si urtano ineluttabilmente con la maggioranza del popolo che culturalmente vede le cose da un’altra prospettiva. Purtroppo da questo choc culturale hanno spesso origine tante crisi in Africa. Mi ricordo che sempre nelle mie vacanze l’estate scorsa in costa d’Avorio, sono andato a fare un giretto in un villaggio con gli amici. Proprio quel giorno si teneva lì una propaganda promossa dal governo per invitare le popolazioni a pagare le tasse sulla proprietà immobile; si provava a far capire alla gente che non pagarle costituiva un reato. A tale messaggio un anziano in collera ha reagito così: “ Ma come! Da quando esiste questo villaggio questo terreno è sempre stato proprietà della mia famiglia. Tutti i miei antenati sono vissuti qui. Perché mai dovrei pagare per una cosa che è mia? Dovrete passare sul mio cadavere! Poi è proprio quel politico che ho votato che si permette di rubarci così. Che delusione! ” A seguire, un lungo applauso di tutto il villaggio. Ci troviamo di fronte a uno dei tanti casi in cui due modi di pensare si scontrano violentemente. Che in uno stato moderno si debba pagare le tasse è normalissimo; ma secondo la tradizione, che uno debba pagare per una cosa che gli appartiene è assurdo, mai si è visto né in cielo né in terra. Senza dubbio il governo vuol risponder a criteri politici che faranno dello stato uno stato “moderno”, ma è anche fuori dubbio che quel signore, ragionando secondo lo schema culturale nel quale lui e la maggioranza del popolo sono cresciuti, è convintissimo di aver ragione. Sulla stessa persona agiscono leggi in evidente contraddizione: la legge di uno stato nato dalla colonizzazione e la legge della tradizione. A chi ubbidire?
Commenti
|
Details
Archivi
Maggio 2023
|