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Quale fede in tempo di pandemia?

30/3/2020

 
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato la pandemia per il coronavirus: significa che ha riconosciuto che il virus è ormai diffuso in buona parte del mondo.
Evidentemente questa emergenza sta cambiando profondamente le nostre vite.
Si tratta di una crisi per molti aspetti nuova, spiazzante e sconcertante, che investe per la prima volta in questa forma anche il nostro mondo ricco e industrializzato. Le notizie, oltre a parlare di contagi e di morti, parlano di quasi tre milioni di italiani a rischio fame e di perdite di ricavi economici quantificabili in diciotto miliardi di euro.
In ogni luogo e in ogni contesto si discute solamente di queste cose.
E anche qui, nel seminario del PIME le discussioni vertono su questi temi.
In generale, percepiamo una certa tensione in quanto facciamo fatica a dare una lettura «evangelica» degli avvenimenti riportati. Il confronto in nome di Dio è difficile, a volte ambiguo, qualcuno diventa dogmatico, rigido, qualcun altro è più disorientato e si domanda: «ma è proprio vero che Dio è onnipotente?», perché questo male sembra sovrastarci, quasi come un incubo…
È sempre difficile di fronte al dolore e alla sofferenza trovare delle risposte adeguate.
Forse di fronte alla realtà profonda della vita e della morte, l’unico atteggiamento autentico è il silenzio. Entrare nel silenzio significa entrare nel mistero di Dio: mistero di morte per la vita, mistero di buio per la luce, mistero di fatica per la gioia, mistero di angoscia per raggiungere la pace.
Certo, di fronte alla sofferenza o alla morte di un amico, o di una persona cui siamo particolarmente legati non riusciamo più a eludere gli interrogativi che sorgono dentro di noi con prepotenza: perché questo evento incomprensibile, così assurdo, scandaloso? Perché Dio, chiunque egli sia, conduce o abbandona gli uomini alla morte?
Spesso gli interrogativi rimangono senza risposta, e le morti di ogni giorno rimangono davanti a noi come un dato di fatto che siamo costretti a riconoscere.
Dio… se lo chiamiamo in causa, dobbiamo innanzitutto fare una premessa, necessaria per comprendere non solo la morte, ma anche la vita, ogni morte e ogni vita: le valutazioni di Dio non sono mai le nostre valutazioni, la giustizia di Dio non è mai da identificare con la nostra giustizia, le vie di Dio non sono mai le nostre vie.
Se leggiamo il Vangelo e guardiamo alla vicenda di Gesù sembra che egli non sia venuto a risolvere i problemi del mondo, e non ha neanche mai detto di fare questo. È invece venuto per stare insieme a quelli che hanno problemi, non per risolverli, ma per starci accanto.
Un antico racconto di un incontro con Dio da parte di un uomo si trova nel libro dell’Esodo: «Mosè disse: Come si saprà che ho trovato grazia ai tuoi occhi (…) se non nel fatto che tu cammini con noi?» (Esodo 33, 14-23).
Dio non risolve i problemi, sta accanto solamente. Per noi l’importante è risolvere i problemi, con o senza Dio. Che si ami o non si ami non importa; per Dio è il contrario.
Gesù, l’Emmanuele (Dio con noi), non ha cancellato la morte o il dolore, ma ha portato la speranza nella morte e nel dolore. Cioè non ha tolto la durezza della vita, ha eliminato la fatalità: se Dio è con noi, non è più un caso la sofferenza e la morte, non è più un caso la vita, la mia vita, la nostra vita, ma è una realtà in cui posso sperare, in cui posso continuare.
La fede, anche in questo tempo di pandemia, è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede (Ebrei 11,1)
Gesù è diventato il fondamento di questa speranza, e lo è diventato con la sua passione morte e resurrezione, mistero pasquale grazie al quale io posso continuare a sperare.
A mio parere probabilmente non ha molto senso parlare di Dio, ma è forse più giusto parlare a Dio, come è più giusto non tanto parlare della vita, ma parlare alla vita, o alla morte.
Per capire il senso di queste drammatiche vicende credo sia necessario andare al di là di esse. Per capire il senso della vita e della morte è necessario andare al di là della vita e della morte.
E nell’apertura alla morte è possibile intravedere la vita nuova di Dio.
Perché tutto questo non fosse troppo difficile per noi, Dio ha scelto di annientare se stesso e diventare uomo come noi. Da allora, il luogo privilegiato della manifestazione del divino è proprio il luogo della debolezza dell’umanità.
Di fronte al silenzio della morte, non siamo soli.
I testi della Scrittura, in particolare quelli sulla «fine», ci invitano a riconoscere i segni di una nuova vita in quelli che sembrano soltanto segni di distruzione.
Nei segni di morte dobbiamo imparare a leggere preziose indicazioni per la vita.
                                       
​                                                Mauro PAZZI, diacono

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