«Da stamane l’islamofobia o solo la diffidenza nei confronti dei musulmani aumenteranno in maniera esponenziale, perché alimentate dallo choc, dall’orrore, dalla profondità devastante di un’emozione. Ieri le decapitazioni, oggi il massacro in redazione. Quanta gente in queste ore penserà: c’è bisogno d’altro per diffidare dell’Islam?». È uno dei tanti articoli apparsi su giornali, blog o altro nei giorni immediatamente successivi ai fatti drammatici della Francia. Riflessione con la quale non si può che concordare, essendo l’effetto immediato di un attacco come quello la paura, il terrore, come d’altronde si prefigge di incutere il terrorista di qualsiasi ideologia.
Certamente un modo per non cedere a questo ricatto è quello di uscire per le strade, andare in piazza, continuare a fare le cose ordinarie. Ma non solo. Una risposta alla lunga addirittura più potente e ultimamente vincente è quella di saper discernere, distinguere, per non cedere alla loro stessa logica. Infatti, questi uomini e donne vogliono una guerra totale: del mondo mussulmano contro l’Occidente, dell’islam contro il cristianesimo, del mondo arabo contro Israele, e noi non possiamo e non dobbiamo cedere alla tentazione di fare il loro gioco. Perché, come ha fatto giustamente notare qualcuno, «quello che è successo a Parigi è un attacco francese alla Francia»: i quattro sospetti sono cittadini francesi, nati e cresciuti in Francia, anche se di origine araba e musulmani; come di origine araba, musulmano e francese è Ahmed Merrabet, uno dei due agenti a protezione del direttore del Charlie Hebdo, ammazzato a colpi di kalashnikov dai terroristi. Mussulmano e francese è pure Lassana Bathily, il giovane commesso del supermercato Kosher di Parigi che durante l’assalto è riuscito mettere in salvo sei persone tra cui una mamma con un bambino piccolo in braccio nascondendoli nella cella frigorifera. No: proprio in questo momento di tensione, in cui è naturale polarizzare le opinioni e radicalizzare i sentimenti, è importante invece fare dei necessari e fondamentali “distinguo”. Anche perché, se è vero che questa gente colpisce ebrei e cristiani perché tali, è altrettanto vero che, in nome di una ideologia religiosa estrema, distruggono in modo indiscriminato qualsiasi vita, inclusa quella dei loro fratelli e sorelle mussulmani. Come è successo il 12 gennaio a Mosul, in Iraq, quando i miliziani dell’Isis, dopo aver annunciato l’esecuzione pubblica con un megafono, hanno ucciso in pubblico a colpi di mitragliatrici tredici ragazzini per il crimine di aver guardato una partita di calcio in televisione della loro nazionale contro la Giordania. O ancora come nella città di Baga e villaggi circostanti, in Nigeria, dove i terroristi di Boko Haram hanno ammazzato centinaia (secondo la BBC addirittura duemila) persone, tra cui una donna incinta, causato la fuga di migliaia le persone, rapito cinquecento tra bambini e donne, e distrutto migliaia di case. Si tratta solamente di due fatti recenti tra i tanti che, insieme a quelli accaduti in Francia, ci permettono di comprendere come non sia in atto uno scontro di civiltà come qualcuno vorrebbe farci credere, quanto una guerra dei terroristi islamici certamente contro Occidente, ebrei e cristiani, ma anche contro i loro stessi Paesi, contro l’islam e la comunità mussulmana e civile. Senza cogliere tale complessità non sarà possibile rispondere adeguatamente e neutralizzare questi crescenti attacchi. Di “guerra” ha parlato esplicitamente il rabbino di Milano in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 13 gennaio: «Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi». Giuseppe Laras denuncia che ci sia voluto l’attacco al giornale Charlie Hebdo perché i francesi e gli europei prendessero coscienza di essere entrati in un vero e proprio conflitto. Scrive: «I molti e continui attentati ai singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi anni hanno turbato qualcuno, ma per quasi tutti si è trattato “solo” di ebrei. Parimenti non ci sono stati sgomento e allarme per il fatto che da anni ormai, giustamente, gli ebrei francesi abbandonino la “laica” Francia. Così accade in molti altri Paesi europei e il motivo è il medesimo, ovvero il dilagare del terrorismo di matrice islamista, con il suo carico di odio antisemita». Il rabbino di Milano condanna dunque, e a ragione, la distinzione in voga tra intellettuali e politici, secondo i quali il problema non sarebbe l’islam, quanto il terrorismo. Se questo, infatti, è certamente vero, occorre anche aggiungere che tale terrorismo è evidentemente di matrice islamica. È, in altre parole, senz’altro sbagliato assimilare islam e terrorismo, ma non si può neppure ignorare che gran parte del terrorismo attuale sia perpetrato proprio da persone che si rifanno ideologicamente a questa tradizione religiosa: «La violenza e il fanatismo, la sottomissione religiosa e il terrore non esauriscono l’Islam, ma sono un problema religioso che in qualche modo riguarda l’Islam». Infine Laras parla di «una tentazione che può profilarsi, a diversi livelli, sia nel cristianesimo sia nella politica europea: quella di lasciar soli gli ebrei e lo Stato di Israele per facilitare una pace politica, culturale e religiosa con l’Islam politico». Il rabbino di Milano è convinto che questa sia una strategia destinata al fallimento perché, «dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono sbarazzati dei “loro” ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoranze cristiane». Come a dire, insomma, che siamo tutti su una stessa barca e che l’islamismo radicale non è soltanto nemico dichiarato degli ebrei, ma anche dei cristiani. Si può anche non essere d’accordo con l’analisi di Laras, ma non si può non condividere la preoccupazione per il vero e proprio esodo, ormai da anni, degli ebrei dal continente europeo. Il crescente antisemitismo non può non farci riflettere, perché quando una minoranza è minacciata e non difesa, stiamo semplicemente distruggendo le basi della convivenza civile. E non si tratta di allearsi con gli ebrei contro i mussulmani, ma di difendere il sacrosanto diritto di ciascuna comunità di professare liberamente e pubblicamente la propria fede. Il terrorismo islamico potrà continuare a mietere vittime e seminare violenza e distruzione per anni e decenni, ma è destinato alla sconfitta. E questo non per un’oscura profezia o un ottimismo ingenuo, ma perché gli essere umani non possono perennemente odiarsi e distruggersi. Chi è, secondo Hans Magnus Enzensberger, poeta e saggista tedesco, autore del libro intitolato Il perdente radicale, tale personaggio? «Il perdente radicale, per offenderlo, basta uno sguardo o una battuta. Dei sentimenti altrui poco gli importa, mentre i suoi gli sono sacri. L’irritabilità del perdente cresce con ogni miglioramento che nota negli altri. Inoltre, se la sua vita non ha più alcun valore, perché dovrebbe interessarsi della vita altrui? “Sono affari miei”. “È colpa degli altri”. L’unica via d’uscita dal dilemma è la fusione di distruzione e autodistruzione, di aggressione e di autoaggressione. Il suo atto gli consente di trionfare sugli altri, in quanto li annienta». Questo testo, pubblicato ormai qualche anno fa, ma che sembra scritto dopo i fatti recenti avvenuti in Francia, afferma che il terrorista contraddice un istinto umano fondamentale: quello della conservazione, perché, come ha detto Freud, «ci possono essere situazioni nelle quali l’individuo preferisce una fine con orrore a un – reale o immaginario – orrore senza fine». L’autore paragona la situazione del terrorista islamico con quella dei tedeschi alla fine della Repubblica di Weimar, per i quale «la bruciante sensazione di essere perdenti poteva essere compensata solo dalla fuga in avanti, nella megalomania. Fin dall’inizio impazzava nelle teste dei nazional-socialisti il fantasma del dominio mondiale. Quindi il loro obiettivi erano sconfinati e non negoziabili; in questo senso non solo erano irreali, ma impolitici». Non importa se il progetto è assurdo e addirittura «l’ipotesi che Hitler e i suoi accoliti non mirassero a vincere, ma a radicalizzare e perpetuare il loro status di perdenti». Il loro vero obiettivo, continua l’autore non era, infatti, «la vittoria, ma lo sterminio, il dissolvimento, il suicidio collettivo, la fine con orrore». Così appaiono gli islamisti attuali, per i quali la forma più pura di terrorismo è l’attentato suicida, perché «il coraggio che lo contraddistingue è il coraggio della disperazione». Occorre, dunque, per concludere, saper distinguere per non fare il gioco di chi uccide indiscriminatamente e propaga il “culto della morte”; occorre senz’altro difendersi e arginare la violenza dei terroristi; occorre incoraggiare nei mussulmani la consapevolezza che un tale radicalismo è demolitore dello stesso islam e dei loro valori; ma ultimamente, e in positivo, è importante non rispondere con la stessa logica di morte e di distruzione, perché, come scriveva nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2005, Giovanni Paolo II: «Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male», «ma il male si vince con il bene» (cfr. Rom 12,21). P. Francesco Rapacioli, PIME (Rettore, Seminario Teologico PIME)
Commenti
|
Details
Archivi
Maggio 2023
|