VISITA PASTORALE ARCIVESCOVO MARIO DELPINI
Celebrazione eucaristica – omelia
Monza, Seminario P.I.M.E.
4 febbraio 2025
Udito parlare di Gesù
(Mc 5,27)
1. C’è il missionario…
C’è il missionario impresario. Arriva e costruisce. Arriva e organizza. Arriva e con lui arrivano volontari competenti e intraprendenti. Il missionario impresario costruisce scuola, chiese, case, ospedali, pensionati per studenti e studentesse. Il missionario impresario organizza laboratori, filiere dal produttore al consumatore.
C’è il missionario martire. Arriva in un contesto ostile. Prende posizione contro costumi viziosi, contro violenze diffuse contro i più deboli. Prende posizione e suscita sconcerto, risentimento, rabbia, finché gli tendono un agguato e il missionario muore.
C’è il missionario temerario. Il missionario temerario si spinge oltre là dove finiscono le strade. Visita luoghi remoti secondo il punto di vista dell’egocentrismo. Incontra persone e costumi che nessuno ha mai conosciuto. Impara lingue che nessuno della sua terra ha mai parlato. Diventa amico di persone che non avevano mai visto uno straniero.
C’è il missionario samaritano. Il missionario samaritano prova compassione per chi soffre, si ferma a raccogliere quelli che cadono per strada, stremati dalla fatica, feriti dalla violenza, affamati, malati, esuli disperati. Si prende cura, medica le ferite, conforta, offre ospitalità, procura sollievo a chi soffre.
C’è il missionario complessato. Il missionario complessato è a disagio per il fatto di essere missionario, è imbarazzato per il fatto di essere sano in mezzo ai malati, ricco in mezzo ai poveri. Si convince che i destinatari della sua missione siano più saggi e buoni di quelli che lo hanno inviato. È sempre preoccupato di non essere un colonialista che impone una cultura che prevarica sulla cultura locale.
C’è il missionario presuntuoso. Il missionario presuntuoso disprezza le culture che non sono evolute come la sua, secondo un suo singolare criterio di evoluzione. Insegna, perché gli altri sono tutti ignoranti. Impone il suo modo di pregare, perché gli altri sono tutti idolatri. Ragiona e fa ragionare perché gli altri sono rimasti tutti nel pensiero magico e nella pratica superstiziosa.
Quanti modi per essere missionari!
Forse voi vi aspettate che io proponga una classifica, che mi metta a giudicare tra le tipologie quelle migliori e quelle peggiori, quelle giuste e quelle sbagliate. Ma questo è il compito vostro, del vostro istituto, della vostra riflessione.
2. La centralità di Gesù
La parola del Signore quest’oggi non propone un trattato di missiologia. Richiama però due aspetti irrinunciabili della missione, due fattori che devono determinare ogni tipo di missione e ogni persona che parta in missione. Forse tutti i modelli accennati contengono aspetti promettenti e coerenti con la riflessione e la pratica virtuosa della missione e contengono limiti che rallentano la missione e la corrompono. Ma ci sono due parole nella liturgia di oggi che aiutano, correggono e incoraggiano ogni missionario in ogni contesto e in ogni forma di missione.
2.2 Tenendo fisso lo sguardo su Gesù.
Non si deve inventare una strada, ma seguire Gesù, lasciarsi condurre dallo Spirito sulle tracce di Gesù. Ci sono infatti molte tentazioni nello zelo missionario: il rischio di guardarsi troppo addosso, di compiangersi per le incomprensioni, di deprimersi per i fallimenti, di esaltarsi per i successi, di esibirsi; il rischio di guardare troppo i numeri; il rischio di guardarsi troppo gli uni gli altri per convincersi di essere migliori, di aver capito meglio di tutti oppure di essere inadeguati.
Noi questo desideriamo fare e possiamo fare: tenere fisso lo sguardo su Gesù. Siamo attratti da lui: tutto quello che possiamo fare, quello che non riusciamo a fare, tutte le gioie e tutte le fatiche e le lacrime trovano in Gesù la salvezza. Tenere fisso lo sguardo su Gesù non è un proposito per gli esercizi spirituali o per una esperienza mistica. È l’atteggiamento quotidiano che dà un orientamento a tutto quello che facciamo, soffriamo, desideriamo.
2.2 udito parlare di Gesù …
La vicenda di questa donna ci aiuta ad avere fiducia e a considerare la modestia di quello che noi possiamo fare. L’avvicinarsi a Gesù della gente non è frutto di una strategia pastorale, di una qualità dei discepoli, di una capacità convincente dei discepoli e dei loro discorsi. Chi sa come questa donna ha udito parlare di Gesù. Forse le chiacchiere, forse il pettegolezzo, forse una cronaca scandalistica. Chi sa come questa donna ha sentito parlare di Gesù. Quello che ha sentito, però, l’ha convinta a cercarlo. Ecco la missione non si esaurisce in una programmazione, in una strategia. È piuttosto come seminare parole al vento. Forse qualcuno sarà raggiunto dalla parola che lo chiama e verrà vicino a Gesù per essere salvato.
Monza, Seminario P.I.M.E.
4 febbraio 2025
Udito parlare di Gesù
(Mc 5,27)
1. C’è il missionario…
C’è il missionario impresario. Arriva e costruisce. Arriva e organizza. Arriva e con lui arrivano volontari competenti e intraprendenti. Il missionario impresario costruisce scuola, chiese, case, ospedali, pensionati per studenti e studentesse. Il missionario impresario organizza laboratori, filiere dal produttore al consumatore.
C’è il missionario martire. Arriva in un contesto ostile. Prende posizione contro costumi viziosi, contro violenze diffuse contro i più deboli. Prende posizione e suscita sconcerto, risentimento, rabbia, finché gli tendono un agguato e il missionario muore.
C’è il missionario temerario. Il missionario temerario si spinge oltre là dove finiscono le strade. Visita luoghi remoti secondo il punto di vista dell’egocentrismo. Incontra persone e costumi che nessuno ha mai conosciuto. Impara lingue che nessuno della sua terra ha mai parlato. Diventa amico di persone che non avevano mai visto uno straniero.
C’è il missionario samaritano. Il missionario samaritano prova compassione per chi soffre, si ferma a raccogliere quelli che cadono per strada, stremati dalla fatica, feriti dalla violenza, affamati, malati, esuli disperati. Si prende cura, medica le ferite, conforta, offre ospitalità, procura sollievo a chi soffre.
C’è il missionario complessato. Il missionario complessato è a disagio per il fatto di essere missionario, è imbarazzato per il fatto di essere sano in mezzo ai malati, ricco in mezzo ai poveri. Si convince che i destinatari della sua missione siano più saggi e buoni di quelli che lo hanno inviato. È sempre preoccupato di non essere un colonialista che impone una cultura che prevarica sulla cultura locale.
C’è il missionario presuntuoso. Il missionario presuntuoso disprezza le culture che non sono evolute come la sua, secondo un suo singolare criterio di evoluzione. Insegna, perché gli altri sono tutti ignoranti. Impone il suo modo di pregare, perché gli altri sono tutti idolatri. Ragiona e fa ragionare perché gli altri sono rimasti tutti nel pensiero magico e nella pratica superstiziosa.
Quanti modi per essere missionari!
Forse voi vi aspettate che io proponga una classifica, che mi metta a giudicare tra le tipologie quelle migliori e quelle peggiori, quelle giuste e quelle sbagliate. Ma questo è il compito vostro, del vostro istituto, della vostra riflessione.
2. La centralità di Gesù
La parola del Signore quest’oggi non propone un trattato di missiologia. Richiama però due aspetti irrinunciabili della missione, due fattori che devono determinare ogni tipo di missione e ogni persona che parta in missione. Forse tutti i modelli accennati contengono aspetti promettenti e coerenti con la riflessione e la pratica virtuosa della missione e contengono limiti che rallentano la missione e la corrompono. Ma ci sono due parole nella liturgia di oggi che aiutano, correggono e incoraggiano ogni missionario in ogni contesto e in ogni forma di missione.
2.2 Tenendo fisso lo sguardo su Gesù.
Non si deve inventare una strada, ma seguire Gesù, lasciarsi condurre dallo Spirito sulle tracce di Gesù. Ci sono infatti molte tentazioni nello zelo missionario: il rischio di guardarsi troppo addosso, di compiangersi per le incomprensioni, di deprimersi per i fallimenti, di esaltarsi per i successi, di esibirsi; il rischio di guardare troppo i numeri; il rischio di guardarsi troppo gli uni gli altri per convincersi di essere migliori, di aver capito meglio di tutti oppure di essere inadeguati.
Noi questo desideriamo fare e possiamo fare: tenere fisso lo sguardo su Gesù. Siamo attratti da lui: tutto quello che possiamo fare, quello che non riusciamo a fare, tutte le gioie e tutte le fatiche e le lacrime trovano in Gesù la salvezza. Tenere fisso lo sguardo su Gesù non è un proposito per gli esercizi spirituali o per una esperienza mistica. È l’atteggiamento quotidiano che dà un orientamento a tutto quello che facciamo, soffriamo, desideriamo.
2.2 udito parlare di Gesù …
La vicenda di questa donna ci aiuta ad avere fiducia e a considerare la modestia di quello che noi possiamo fare. L’avvicinarsi a Gesù della gente non è frutto di una strategia pastorale, di una qualità dei discepoli, di una capacità convincente dei discepoli e dei loro discorsi. Chi sa come questa donna ha udito parlare di Gesù. Forse le chiacchiere, forse il pettegolezzo, forse una cronaca scandalistica. Chi sa come questa donna ha sentito parlare di Gesù. Quello che ha sentito, però, l’ha convinta a cercarlo. Ecco la missione non si esaurisce in una programmazione, in una strategia. È piuttosto come seminare parole al vento. Forse qualcuno sarà raggiunto dalla parola che lo chiama e verrà vicino a Gesù per essere salvato.
P. Luca BOLELLI (Missionario in Cambogia)
Mi chiamo p. Luca Bolelli, sono originario della diocesi di Bologna e missionario del PIME dal 2000. Dopo i primi 6 anni di ministero spesi tra Roma e Napoli per la formazione e l’animazione vocazionale, sono stato destinato in Cambogia. Lì ho vissuto 12 anni di missione, soprattutto nella zona attorno a Kdol Leu, un piccolo villaggio cristiano disteso sulle sponde del grande fiume Mekong. Sono stati anni molto intensi, di condivisione “pelle a pelle” con la gente. La vita di villaggio ti espone 24 ore su 24 agli occhi dei vicini, non c’è privacy, e questo, se all’inizio è un po’ fastidioso, poi ti abitua a vivere davanti agli altri senza maschere, perché tanto sanno praticamente tutto di te. Per me presbitero, non si trattava quindi solo di un contatto settimanale alla Messa domenicale con la comunità, perché quello era il punto di arrivo e di partenza per tutto quanto accadeva durante la settimana: gioie, dolori, speranze, sofferenze, fatiche e successi, lavoro e riposo, nascite, matrimoni, funerali… tutta la vita. Posso dire che Kdol Leu è stata la mia “Nazareth”: cioè un’esperienza di quotidianità, dove finalmente capisci che siamo tutti nella stessa barca, tutti con gli stessi sentimenti e attese nel profondo del cuore. Tutti profondamente bisognosi del Signore Gesù.
Ma la mia missione non si esauriva tra i cristiani del villaggio. Sapevo di essere lì, soprattutto per chi ancora non ha avuto la fortuna di conoscere il volto di Cristo. La Cambogia è un paese dove il Buddismo è religione di Stato, quindi anche la zona dove mi trovavo era immersa in questo grande mondo buddista, fatto di pagode e monaci onnipresenti in ogni piccolo villaggio. Allo stesso tempo, il villaggio di Kdol Leu confinava con una tutta una grande area di villaggi a maggioranza mussulmana. Si tratta di persone appartenenti al popolo Cham, un popolo che nei secoli ha perso la propria terra e in un qualche modo ha trovato ospitalità in questa parte della Cambogia. Io sapevo di essere lì per loro. Perché tutti, a qualsiasi religione o visione del mondo appartengano, tutti hanno nel cuore un profondo desiderio di conoscere il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo: Cristo. Nel volto Gesù di Nazareth, infatti, incontriamo allo stesso tempo questi due volti, perché in lui Dio e l’uomo si sono abbracciati.
Poi inaspettatamente un bel giorno mi è stato chiesto di venire a Monza per aiutare nella formazione dei futuri missionari. Confesso che non è stato facile lasciare la Cambogia per dedicarmi ad un servizio per il quale mi sentivo inadeguato e impreparato. Mi ha aiutato molto tornare alle parole che sono all’origine di qualsiasi vocazione: “Chi vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce, e mi segua” (Mt 16,24). Ho capito che essere missionari non vuol dire semplicemente andare in missione ma soprattutto continuare seguire il vero Missionario, Gesù, ovunque lui vada. Così ho accettato di seguirlo qui a Monza. E devo riconoscere che questi cinque anni con i seminaristi sono stati finora un grande dono. Poter condividere con loro il cuore della vita missionaria, ovvero la relazione con il Signore Gesù, e cercare di camminare in maniera sempre più autentica con Lui, per imparare ad amare il Padre e i fratelli che abbiamo accanto, tutto questo è un’esperienza impagabile. Certo la responsabile è grande. Non si tratta tanto di trovare nuove leve per il PIME, ma di aiutare ognuno di loro a capire in che modo poter far fiorire la propria vita a servizio del Vangelo e della Chiesa.
Ringrazio il Signore e con Lui tutti coloro che in vario modo sostengono questa nostra comunità, ognuno come piccolo mattoncino insostituibile per rendere il Seminario una vera comunità cristiana dove imparare a credere, amare e sperare, e partire per annunciare il Vangelo ad ogni creatura fino agli estremi confini della terra.
p. Luca
Ma la mia missione non si esauriva tra i cristiani del villaggio. Sapevo di essere lì, soprattutto per chi ancora non ha avuto la fortuna di conoscere il volto di Cristo. La Cambogia è un paese dove il Buddismo è religione di Stato, quindi anche la zona dove mi trovavo era immersa in questo grande mondo buddista, fatto di pagode e monaci onnipresenti in ogni piccolo villaggio. Allo stesso tempo, il villaggio di Kdol Leu confinava con una tutta una grande area di villaggi a maggioranza mussulmana. Si tratta di persone appartenenti al popolo Cham, un popolo che nei secoli ha perso la propria terra e in un qualche modo ha trovato ospitalità in questa parte della Cambogia. Io sapevo di essere lì per loro. Perché tutti, a qualsiasi religione o visione del mondo appartengano, tutti hanno nel cuore un profondo desiderio di conoscere il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo: Cristo. Nel volto Gesù di Nazareth, infatti, incontriamo allo stesso tempo questi due volti, perché in lui Dio e l’uomo si sono abbracciati.
Poi inaspettatamente un bel giorno mi è stato chiesto di venire a Monza per aiutare nella formazione dei futuri missionari. Confesso che non è stato facile lasciare la Cambogia per dedicarmi ad un servizio per il quale mi sentivo inadeguato e impreparato. Mi ha aiutato molto tornare alle parole che sono all’origine di qualsiasi vocazione: “Chi vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce, e mi segua” (Mt 16,24). Ho capito che essere missionari non vuol dire semplicemente andare in missione ma soprattutto continuare seguire il vero Missionario, Gesù, ovunque lui vada. Così ho accettato di seguirlo qui a Monza. E devo riconoscere che questi cinque anni con i seminaristi sono stati finora un grande dono. Poter condividere con loro il cuore della vita missionaria, ovvero la relazione con il Signore Gesù, e cercare di camminare in maniera sempre più autentica con Lui, per imparare ad amare il Padre e i fratelli che abbiamo accanto, tutto questo è un’esperienza impagabile. Certo la responsabile è grande. Non si tratta tanto di trovare nuove leve per il PIME, ma di aiutare ognuno di loro a capire in che modo poter far fiorire la propria vita a servizio del Vangelo e della Chiesa.
Ringrazio il Signore e con Lui tutti coloro che in vario modo sostengono questa nostra comunità, ognuno come piccolo mattoncino insostituibile per rendere il Seminario una vera comunità cristiana dove imparare a credere, amare e sperare, e partire per annunciare il Vangelo ad ogni creatura fino agli estremi confini della terra.
p. Luca
Francesca Terzi e Massimo Buzzi
Dallo scorso anno entriamo e usciamo con maggiore famigliarità dal Seminario di Monza, ma chi siamo? Abbiamo raccolto l’invito a presentarci!
Siamo Francesca Terzi e Massimo Buzzi sposi da 31 anni e con due splendidi figli Samuele e Sara di 24 e 22 anni. Siamo presenti in seminario come collaboratori nell’accompagnamento, soprattutto della classe attuale di filosofia e in generale, partecipi della vita di formazione dei seminaristi. Il nostro coinvolgimento di laici è nato circa un anno fa, da una proposta del rettore condivisa con gli altri padri.
La nostra vita famigliare si lega al Pime e come un filo si intreccia qua e là negli anni con un inizio di tessitura negli anni ‘90, poco dopo il nostro matrimonio. Venivamo da esperienze di volontariato con la Caritas e di animazione in oratorio e abbiamo partecipato a un viaggio nelle Filippine insieme ad altri parrocchiani in visita ai missionari della nostra città. Nella forte esperienza vissuta a contatto con alcuni padri del Pime a Manila e a Zamboanga, è scaturito dentro di noi l’interrogativo se anche noi come coppia potessimo vivere un servizio di totale disponibilità come laici in una missione. Tornati a Pioltello, la nostra città, la domanda non si è raffreddata ma anzi è diventata sempre più ardente.
La risposta è maturata nel cammino che proprio il Pime proponeva (e propone ancora oggi) a singoli e coppie di laici, nell’ALP l’Associazione Laici Pime con una formazione di due anni a Busto Arsizio e una partenza verso la missione per tre o cinque anni. Sentivamo cammin facendo che la fiamma si alimentava e di voler dare alla nostra famiglia questa caratteristica di partenza e apertura verso l’altro con la totale disponibilità anche a lasciare tutto ciò che ci era più noto, la casa, il lavoro e gli affetti, abbandonandosi totalmente ad un progetto dove testimoniare quell’amore del Signore che unisce e mette a servizio degli altri. Il Direttivo dell’Alp ha scelto per noi e ci ha proposto di partire per una missione del Pime a San Paolo del Brasile per tre anni abitando in una casa-famiglia (Casa Betania) situata in una favela, dove già operava un missionario del Pime, padre Maurilio Maritano, responsabile di questo progetto. Negli anni in cui abbiamo abitato là, dal 1996 alla fine del 1999, abbiamo vissuto facendo da “genitori”, a un totale di trenta bambini, bambine e ragazzi, dai 3 ai 18 anni, che attraverso un servizio della Caritas di San Paolo venivano tolti dalla strada per non essere più gli abbandonati, i non visti, cercando di ridare loro un senso di famiglia, studio, gioco, vivendo con noi chi qualche settimana (incamminato poi nella propria famiglia), chi diversi mesi e anni.
A San Paolo la casa, gestita anche con altre due “Alpine” (Laura e Nicoletta) e altri volontari brasiliani, era diventata punto d’incontro per i padri del Pime che venivano a visitarci e a condividere con noi momenti di cene o a celebrare la messa e la casa si riempiva di gente del quartiere e di eucarestia, lo scambio nella fede era spontaneo e molto concreto e il giorno dopo i vicini, anche nelle difficoltà quotidiane, erano più fratelli. A questa missione si è aggiunta la partecipazione come educatori nelle attività nel Centro Cespat-Pime e nei Centri di Gioventù creati nelle cappelle di padre Maurilio. I bambini e i ragazzi non sono mai mancati nelle nostre giornate!
Il nostro vivere quotidianamente a contatto con le parti più povere della città è stata la ricchezza che abbiamo potuto mettere in valigia al nostro ritorno: l’essere stranieri, il disagio della lingua da imparare, i costumi e valori diversi hanno fatto posto all’ospitalità vissuta, la relazione cercata e il sentirsi chiesa dovunque si testimonia e si vive la fede.
Tornati in Italia con il dono della nascita dei nostri due figli abbiamo continuato la nostra disponibilità ad altri servizi in parrocchia e nell’ALP accompagnando altri laici verso la missione. Intanto ci è stato possibile tornare con Samuele e Sara diverse volte a San Paolo, dove rincontravamo la casa, i progetti e gli affetti nati anche da quella parte dell’oceano con un filo che ancora oggi ci lega.
Ora in seminario cerchiamo di lasciare con tutti piccole tracce del servizio, nella formazione, nel dialogo per gioie e fatiche soprattutto con uno stile di famiglia che tentiamo di far percepire, ma anche avvertiamo e ci ha coinvolto da subito. Il nostro lavoro (di educatore in una comunità e di logopedista) non ci permette di essere presenti sempre e non ci è stato appunto chiesto questo, ma qualsiasi piccola o grande opportunità di scambio nei momenti possibili, nei diversi carismi, età e provenienza crediamo anche noi possano essere la strada per crescere e favorire domande e riflessioni sul cammino vocazionale di ciascuno.
L’incontro e la preghiera reciproca sono il fondamento di questo servizio e possiamo solo ringraziare il Signore per il filo che continua a voler tessere nella nostra vita e che si intreccia ora con le storie dei formatori, seminaristi e amici tutti del Seminario.
Siamo Francesca Terzi e Massimo Buzzi sposi da 31 anni e con due splendidi figli Samuele e Sara di 24 e 22 anni. Siamo presenti in seminario come collaboratori nell’accompagnamento, soprattutto della classe attuale di filosofia e in generale, partecipi della vita di formazione dei seminaristi. Il nostro coinvolgimento di laici è nato circa un anno fa, da una proposta del rettore condivisa con gli altri padri.
La nostra vita famigliare si lega al Pime e come un filo si intreccia qua e là negli anni con un inizio di tessitura negli anni ‘90, poco dopo il nostro matrimonio. Venivamo da esperienze di volontariato con la Caritas e di animazione in oratorio e abbiamo partecipato a un viaggio nelle Filippine insieme ad altri parrocchiani in visita ai missionari della nostra città. Nella forte esperienza vissuta a contatto con alcuni padri del Pime a Manila e a Zamboanga, è scaturito dentro di noi l’interrogativo se anche noi come coppia potessimo vivere un servizio di totale disponibilità come laici in una missione. Tornati a Pioltello, la nostra città, la domanda non si è raffreddata ma anzi è diventata sempre più ardente.
La risposta è maturata nel cammino che proprio il Pime proponeva (e propone ancora oggi) a singoli e coppie di laici, nell’ALP l’Associazione Laici Pime con una formazione di due anni a Busto Arsizio e una partenza verso la missione per tre o cinque anni. Sentivamo cammin facendo che la fiamma si alimentava e di voler dare alla nostra famiglia questa caratteristica di partenza e apertura verso l’altro con la totale disponibilità anche a lasciare tutto ciò che ci era più noto, la casa, il lavoro e gli affetti, abbandonandosi totalmente ad un progetto dove testimoniare quell’amore del Signore che unisce e mette a servizio degli altri. Il Direttivo dell’Alp ha scelto per noi e ci ha proposto di partire per una missione del Pime a San Paolo del Brasile per tre anni abitando in una casa-famiglia (Casa Betania) situata in una favela, dove già operava un missionario del Pime, padre Maurilio Maritano, responsabile di questo progetto. Negli anni in cui abbiamo abitato là, dal 1996 alla fine del 1999, abbiamo vissuto facendo da “genitori”, a un totale di trenta bambini, bambine e ragazzi, dai 3 ai 18 anni, che attraverso un servizio della Caritas di San Paolo venivano tolti dalla strada per non essere più gli abbandonati, i non visti, cercando di ridare loro un senso di famiglia, studio, gioco, vivendo con noi chi qualche settimana (incamminato poi nella propria famiglia), chi diversi mesi e anni.
A San Paolo la casa, gestita anche con altre due “Alpine” (Laura e Nicoletta) e altri volontari brasiliani, era diventata punto d’incontro per i padri del Pime che venivano a visitarci e a condividere con noi momenti di cene o a celebrare la messa e la casa si riempiva di gente del quartiere e di eucarestia, lo scambio nella fede era spontaneo e molto concreto e il giorno dopo i vicini, anche nelle difficoltà quotidiane, erano più fratelli. A questa missione si è aggiunta la partecipazione come educatori nelle attività nel Centro Cespat-Pime e nei Centri di Gioventù creati nelle cappelle di padre Maurilio. I bambini e i ragazzi non sono mai mancati nelle nostre giornate!
Il nostro vivere quotidianamente a contatto con le parti più povere della città è stata la ricchezza che abbiamo potuto mettere in valigia al nostro ritorno: l’essere stranieri, il disagio della lingua da imparare, i costumi e valori diversi hanno fatto posto all’ospitalità vissuta, la relazione cercata e il sentirsi chiesa dovunque si testimonia e si vive la fede.
Tornati in Italia con il dono della nascita dei nostri due figli abbiamo continuato la nostra disponibilità ad altri servizi in parrocchia e nell’ALP accompagnando altri laici verso la missione. Intanto ci è stato possibile tornare con Samuele e Sara diverse volte a San Paolo, dove rincontravamo la casa, i progetti e gli affetti nati anche da quella parte dell’oceano con un filo che ancora oggi ci lega.
Ora in seminario cerchiamo di lasciare con tutti piccole tracce del servizio, nella formazione, nel dialogo per gioie e fatiche soprattutto con uno stile di famiglia che tentiamo di far percepire, ma anche avvertiamo e ci ha coinvolto da subito. Il nostro lavoro (di educatore in una comunità e di logopedista) non ci permette di essere presenti sempre e non ci è stato appunto chiesto questo, ma qualsiasi piccola o grande opportunità di scambio nei momenti possibili, nei diversi carismi, età e provenienza crediamo anche noi possano essere la strada per crescere e favorire domande e riflessioni sul cammino vocazionale di ciascuno.
L’incontro e la preghiera reciproca sono il fondamento di questo servizio e possiamo solo ringraziare il Signore per il filo che continua a voler tessere nella nostra vita e che si intreccia ora con le storie dei formatori, seminaristi e amici tutti del Seminario.
EMANUELAEmanuela, 56 anni di Monza e insegnante di scuola d’infanzia.
Come sei venuta a conoscenza del gruppo? Ero appena entrata a far parte del gruppo delle madrine e dei padrini; poi come in una bambolina russa, ho scoperto che questo gruppo ne conteneva un altro denominato “Amici Festa Riconoscenza” (AFR). In questo gruppo ho conosciuto Virginia che era la responsabile dell’animazione dei bambini; Virginia era simpatica, io sono un’insegnante… il gioco si è completato e ne sono diventata parte attiva. Cosa ti porti a casa da questa esperienza? Mi porto a casa la gioia della condivisione nel gruppo, la creatività messa a servizio della festa e tutta me stessa a servizio dei bambini. Quali sono 3 Parole che useresti per descrivere la tua esperienza? Creativa, particolare e colorita. |
NATASCIA
Natascia, 22 anni di Fagnano Olona e studentessa di medicina.
Come sei venuta a conoscenza del gruppo? Sono venuta a conoscenza del gruppo sia tramite amicizie sia grazie al fatto di essermi avvicinata al mondo Pime e aver già fatto altre esperienze nell’ambito. Cosa ti porti a casa da questa esperienza? Sicuramente è stato un mettermi in gioco in qualcosa dove non ero affatto preparata; mi è piaciuto il lavoro di “squadra” e anche i piccoli insegnamenti che ho ricevuto, dalle amiche e dai bimbi stessi. Quali sono 3 Parole che useresti per descrivere la tua esperienza? Entusiasmo, entusiasmo, entusiasmo… no scherzo, se dovessi dire altre due parole: condivisione e tempo. |
VIRGINIA
Virginia, 22 anni di Pessano con Bornago ed educatrice.
Come sei venuta a conoscenza del gruppo? È già da più di 10 anni che conosco il Pime, un luogo che soprattutto negli anni dell’adolescenza mi ha dato l’opportunità di formarmi e di crescere grazie ad una serie di esperienze di cui oggi faccio memoria con gioia e con piacere. Nell’anno 2015, insieme ai miei genitori Pierluigia e Claudio, sono entrata nel gruppo degli “Amici Festa della Riconoscenza” (AFR) che, con passione e amore, organizzano la bellissima festa di maggio; proprio in quell’occasione ho conosciuto Emanuela ed insieme, abbiamo scelto di dare vita ad un gruppo di animazione per i bimbi visto che negli anni precedenti non c’era mai stata un’organizzazione ben pensata dei vari giochi e delle varie attività da offrire loro. Cosa ti porti a casa da questa esperienza? Essendo responsabile di questo gruppo, senza dubbio mi sento ogni giorno arricchita grazie allo scambio e al confronto con le ragazze che, con entusiasmo, hanno scelto di percorrere insieme a me questo cammino di preparazione e di organizzazione delle attività per i bambini che, nel mese di Maggio, parteciperanno alla tanto attesa Festa della Riconoscenza. Oltre all’arricchimento porto a casa anche la preziosa opportunità di mettermi in gioco con le mie risorse, ricchezze e di saper riconoscere anche i miei limiti. Quali sono 3 Parole che useresti per descrivere la tua esperienza? Quando penso all’esperienza di animazione, la prima parola che mi viene da dire è CONDIVISIONE del lavoro in equipe in cui ognuna di noi ha l’opportunità di esprimere le proprie idee per costruire insieme attività educative e creative che sappiano coinvolgere il bambino e che gli diano l’occasione di divertirsi e di trascorrere una piacevole giornata al Pime di Monza. La seconda parola è FORMAZIONE in quanto sento che, sia il seminario del Pime che le ragazze con le quali condivido questo percorso di equipe, mi stanno donando l’occasione di formarmi e di crescere facendomi sentire parte di una grande e vera famiglia missionaria. La terza ed ultima parola per descrivere quest’arricchente esperienza è CONFRONTO; all’interno del nostro gruppo, c’è moltissimo scambio e rispetto delle idee che vengono offerte. L’obiettivo del nostro lavoro d’equipe è quindi quello di accogliere tutti i punti di vista per riuscire a confrontarsi autenticamente e ad utilizzare tutte le risorse di ogni singola animatrice. |
CHIARA
Chiara, 20 anni di Monza e studentessa di scienze dell’educazione
Come sei venuta a conoscenza del gruppo? Ho saputo di questo gruppo nel 2016, parlando con Silvia, mia compagna di università, che mi ha raccontato con entusiasmo della possibilità di fare animazione per bambini in occasione della Festa della Riconoscenza: conoscevo da qualche anno, grazie ad esperienze e cammini fatti in precedenza, il PIME e, avendo già sperimentato sulla mia pelle la gioia dell’essere coinvolta in questo mondo, ho accolto questa proposta come un’avventura da non lasciarsi assolutamente scappare! Cosa ti porti a casa da questa esperienza? Lo stare in mezzo ai bambini, la possibilità di lavorare e giocare con loro, è qualcosa che dà una carica pazzesca, fa stare bene, fa tornare a casa con il sorriso sulle labbra. Un’altra risorsa di questo tipo di esperienza è il poter condividere con le altre persone dell’equipe i vari momenti dell’organizzazione e della realizzazione dell’animazione, sapendo di poter sempre contare sull’amicizia e sul sostegno di chi percorre questo cammino con te. Quali sono 3 parole che useresti per descrivere la tua esperienza? Affidarsi, fraternità, complicità. |
SILVIA
Silvia, 21 anni di Milano e studentessa di Scienze dell’Educazione.
Come sei venuta a conoscenza del gruppo? Il Pime è entrato nel mio cammino di vita da quando ero piccola grazie al gruppo di “Famiglie Missionarie” e ha continuato a farne parte grazie anche ad altri cammini e esperienze che mi hanno formata. Ho voluto dunque a mia volta trasmettere lo spirito missionario e di fratellanza che mi è stato donato anche ai più piccoli e perciò ho accettato la proposta di Virginia. Ho scelto dunque di dedicare parte del mio tempo a questo gruppo e di sperimentarmi in una nuova realtà. Cosa ti porti a casa da questa esperienza? È passato un anno ormai dall’inizio di questa esperienza e credo di aver imparato molto; ho imparato a lavorare in un’equipe, ho condiviso quello che sapevo e dal sapere condiviso ho imparato. Ho riscoperto la bellezza della semplicità, dei colori, dei lavoretti. Ho capito quanto il programmare possa essere scombinato e quanto l’imprevisto si possa rivelare piacevole perché l’animare è un qualcosa che viene fatto insieme. Quali sono 3 Parole che useresti per descrivere la tua esperienza? Cammino, Unione e Condivisione. |
MARTA
Marta, 24 anni di Rho e studentessa di Fisica Teorica.
Come sei venuta a conoscenza del gruppo? Due anni fa sono stata contattata da Virginia, che stava cercando un gruppo di persone per animare la Festa della Riconoscenza al seminario, per dare una mano con qualche numero di giocoleria. Ho accettato e mi sono ritrovata in un ambiente pieno di entusiasmo e di voglia di mettersi in gioco per i bimbi, con l’obiettivo di trovare delle attività che potessero far passare loro una bella giornata. Cosa ti porti a casa da questa esperienza? Il lavoro di preparazione ha dato i suoi frutti ed è stato un grande successo: la festa è stata piena di sorrisi, incontri e tanta allegria. Tutte cose che mi sono portata a casa, assieme alla bellezza del lavorare in squadra. Quali sono 3 Parole che useresti per descrivere la tua esperienza? Per descrivere il tutto in tre parole, sceglierei: CREATIVITÀ, CONFRONTO e ARRICCHIMENTO, ACCOGLIENZA (sono quattro, ho barato J). |