Il diacono Matheus Didonet, ordinato presbitero il 04 agosto nella sua parrocchia di Brasilia, ci ha fatto una sua riflessione che ripercorre la traiettoria della sua vocazione
Ognuno ha una sua “traiettoria vocazionale”, e sceglie una figura per illustrarla. Non saprei quale figura scegliere per la mia traiettoria … qualcuno segue una retta: è cresciuto in una parrocchia, ha sentito la chiamata di Dio e è entrato in una congregazione o nella diocesi di appartenenza. Altri seguono una curva, iniziando con velocità, raccontando a tutti la loro vocazione, ma nella salita perdono impulso, cominciano a guardare indietro, le forze delle preoccupazioni della vita o l’attaccamento al passato hanno il soppravvento, e si ritorna a terra quasi allo stesso punto da dove tutto era iniziato. La mia traiettoria forse è più confusa: come un gomitolo di lana col quale gioca il gatto, terminando poi prigioniero dello stesso, o come una traiettoria di un aquilone che svolazza nel cielo.
Tra l’altro, da bambino non ho mai giocato con l’aquilone. Stranamente a Brasilia, città dagli ampi orizzonti, mancava spazio. Nel quartiere del centro dove abitavo ogni persona aveva una casa, ogni casa un giardino, ogni giardino un bambino, ma tutto separato da un muro. Era un quartiere molto bello e sicuro. In un giorno di vento mi fermai per vedere centinaia di aquiloni danzando in cielo, lontano, e immaginai che dall’altra estremità del filo c’erano bambini che correvano liberi per le strade senza asfalto, bambini diversi e allo stesso tempo uguali. A quell’età mai mi passò per la testa d’essere padre, ma di quell’epoca mi è rimasta la sensazione che i fili del vangelo conducono a quella vita semplice, nella periferia del mondo.
Gesù è stato trasformatore principalmente per il suo modo d’incontrare le persone. Il suo sguardo andava oltre le categorie etniche o sociali, oltre ogni giudizio morale, per arrivare a vedere ciò che la persona è realmente: figlia amata di Dio. “Egli è la nostra pace: colui che dei due [popoli] ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva (Ef 2,14). Alle volte sembra viviamo chiusi nel nostro piccolo mondo, preoccupati col lavoro, con la nostra immagine o classe sociale. Il Vangelo ci ricorda che il mondo è più grande, che ogni persona è un fratello che vale la pena incontrare e con lui condividere la ricerca di Dio che è passato per le stesse strade polverose. In questa ricerca tentiamo continuamente di seguire i suoi passi, non sempre molto visibili lungo il cammino.
A 19 anni ho capito che la ricerca di Dio era un desiderio molto forte e impossibile da spartire con altre preoccupazioni. Ho lottato, ho cercato di fuggire, ma alla fine ho dovuto ammettere, prima di tutto a me stesso, che questa era la mia vocazione. Ho pensato di partire subito, di lasciare tutto in una volta, perché mi pareva questo il modo per soffrire meno: abbandonare il corso di Fisica nella Unb (Università di Brasilia), gli amici, la famiglia. Mi consigliarono di terminare il corso, altri tre anni, per maturare la decisione. In questo tempo, ho potuto far volare l’aquilone per la prima volta, quando ho partecipato a Sognare Sveglio, una ONG che in varie città del Brasile cerca di avvicinare tra loro, volontari e bambini carenti. Alcuni di questi bambini hanno tentato d’introdurmi nell’arte dell’aquilone, ma senza molto successo.
Sono stati anni importanti della mia vita, ma difficili. Il desiderio di partire, inizialmente inesistente, cresceva sempre di più, ma era trattenuto dalla paura dell’ignoto. Da un lato la sensazione di non appartenere più a quella vita, dall’altro la tentazione di rimanere dove mi trovavo. Ho fatto l’esperienza della mia fragilità, imparando che è in questi momenti che Dio si manifesta, proprio nel peccato e nella contrizione …
Un altro motivo di dubbio era dovuto al fatto che ancora non avevo chiaro che tipo di vocazione seguire. Pensando nelle situazioni di povertà, ho fatto un accompagnamento con i francescani, sono stato in India e sono entrato nella Toca di Assis (esperienza radicale di convivenza con i poveri) fino a quando ho conosciuto il PIME. Allora ho scoperto che tante cose che portavo dentro di me incontravano finalmente la loro realizzazione: andare nelle terre più lontane, condividere la vita con le persone più povere e tentare di vivere il Vangelo. Chissà, se in terre lontane, potrò finalmente imparare a far volare l’aquilone … come un amico missionario che, non riuscendo a far sì che l’aquilone rimanesse lontano dai rami, si è rimesso fiduciosamente nelle mani esperte di un bambino dell’orfanatrofio che dirige in Bangladesh. Padre Fabrizio più tardi scriverà:
“Anche noi padri siamo così, sospesi tra il cielo e la terra, la nostra umanità fragile come un filo, la grazia di Dio che ci salva con il vento, e i piccoli che ci fanno scuola”[1].
[1] CALEGARI, F., Il cuore altrove, Pimedit, Milano, 2017, p. 28.