Gesù ha riunito tutto quello che possiamo comprendere dell'amore per i fratelli in un’unica parola, e siccome la parola di Dio, che è creatrice, realizza sempre quello che esprime, quando Gesù ha parlato di amore, ha creato l'eucaristia. Questa riflessione vorrebbe cercare di avvicinarci alla proposta che Dio ci fa dell‘amore e della comunità in cui vuole che viviamo. Dico la proposta, l‘invito, l'indicazione, perché il modo di concretizzare, di realizzare la nostra comunità cristiana in seminario e, al contempo, questo amore, non è uguale per tutti. Fatta questa premessa, cercherò di vedere su cosa si fonda la comunità cristiana, che cosa presuppone e che cosa chiede.
Una comunità di Amici
La comunità cristiana credo si fondi su quello che Gesù, non io, non voi, ma Gesù, ha chiamato amicizia: «Non vi chiamo più servi…; ma vi chiamo amici» (Gv15,15). Non ha detto fratelli, sposi, no, ha detto «amici». L'amicizia è perciò il fondamento di qualunque comunità cristiana, di qualunque comunità eucaristica. Che cosa significa amicizia? Non te lo so spiegare, ma ti chiedo: tu, tenti di vivere l'amicizia o ne hai paura? Hai paura di comprometterti troppo, di rischiare troppo? Certo, offrire la propria amicizia è offrire se stessi, è mettersi nelle mani di un altro, e ciò comporta un rischio, ma è il rischio evangelico, è il compromettersi evangelico; non so dove vada a finire e non so dove porti.
Ma leggendo il Vangelo, ad esempio il discorso della montagna, appare subito la dimensione avventurosa che esso ha dentro di sé: «Non resistere al malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra, e se uno vuol farti causa per toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello. E se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due. Da' a chi ti chiede, e non rifiutarti di dare a chi desidera qualcosa in prestito da te. Voi avete udito che fu detto: "Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico". Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono» (Mt5,39-44). Sei disposto a correre questo rischio fidandoti di Dio? Sei disposto ad accettare tutte le conseguenze di un'amicizia offerta a chiunque? Senza guardare al suo passato o alla sua condizione sociale, senza guardare se ti è amico o nemico? Prova a vivere queste cose, e vedrai se non è un'avventura, vedrai se non è un rischio. Ma è degno dell’amore di Dio e della speranza che lui ha in noi rischiare e scommettere su quella proposta. La comunità cristiana, dunque, presuppone amicizia, presuppone unità fra chi la vuole costruire. Ma non basta…
Amici che si lavano i piedi l’un l’altro
Non e sufficiente, per essere una comunità, conoscersi o ritrovarsi insieme attorno all'eucaristia; vivere in comunità significa soprattutto non sentirsi più arbitri della propria vita, ma accettare di dipendere dagli altri, accettare di rendere conto agli altri di quello che abbiamo e di quello che siamo; gli altri debbono sentirsi in diritto di entrare nella nostra vita, di entrare nelle nostre stanze, di entrare nelle cose che abbiamo. Sapete perché? Lo dice san Paolo, perché ogni dono che ci è stato dato, è stato dato a qualcuno per l'utilità di tutti (1Cor12,7). E ditemi voi se c'è qualcosa nella vostra vita che non sia un dono. La stessa fede che abbiamo cercato (e che a volte cerchiamo in tanti modi di trasmettere agli altri, anche violentando le coscienze, credendola indispensabile per la salvezza), non è altro che un dono dato ad alcuni, perché tutto il mondo l'abbia.
Dunque, la mia fede è di tutti, la mia preghiera è di tutti, il mio amore è di tutti; la mia intelligenza, le mie doti, le mie capacità, qualunque sia il campo in cui esse si esprimono, la mia salute, tutte le cose che ho mi sono state date come in prestito, perché tutto il mondo le abbia. Se penso che siano per me solo, inganno me stesso e derubo gli altri.
La comunità eucaristica, come la cena del Signore, è dunque innanzi tutto una lavanda di piedi, un servizio di chi più ha verso chi non ha; soprattutto di chi ha autorità, verso chi è “inferiore”. Se nelle nostre comunità chi ha autorità è quello che è riverito, vuol dire che è stato capovolto il messaggio di Gesù. Non posso rimanere indifferente di fronte alla proposta di unità che rappresenta l'eucaristia: o accetto di essere insieme a tutti, che la mia vita sia a disposizione di tutti, che la preghiera di tutti sia la mia preghiera, che la sofferenza degli altri sia la mia sofferenza, che il peccato altrui sia il mio peccato, oppure accetto la condanna del mio individualismo. Non è una condanna da parte di Dio, ma un'autocondanna, perché Dio è comunità di persone e il Paradiso è essenzialmente comunicazione e comunione, e chi non accetta di compromettere la propria vita con tali realtà si esclude da solo; è il tema del peccato.
Nella consapevolezza di essere peccatori
Nel discorso di addio ai suoi discepoli, dopo aver dato loro il comandamento dell'amore, Gesù dice: «Vi manderò lo Spirito di verità: egli, quando sarà venuto, convincerà il mondo di peccato» (Gv16,7-8). È importante partire da qui per scoprire il significato dell'incontro fra noi e del nostro incontro con Dio. Il peccato è per noi una cosa molto difficile da accettare: non vorremmo mai essere considerati dei peccatori, e ci sforziamo per non essere più tali. È la nostra tentazione, il nostro desiderio intimo, poter dire: «Finalmente, non abbiamo più peccati!». In questo forse è complice anche la nostra società, la mentalità corrente, l‘educazione ricevuta, che ci hanno abituati a considerarci in rapporto alle qualità che abbiamo, all'intelligenza, alla bellezza, alla ricchezza... anche alla ricchezza spirituale, per cui ci accettiamo nella misura in cui siamo buoni; ma il giorno in cui, secondo noi, siamo diventati buoni, ci persuadiamo di non aver più bisogno dell’amore di Dio; ma «aver bisogno» dell’altro è fondamentale nell’amore.
Allora non dobbiamo diventare migliori? Se migliorarci vuol dire diventare più perfetti, no. Se vuol dire constatare di più la nostra povertà e il nostro peccato, sì. Dio ci farà sempre incontrare col peccato, perché vuole che siamo persone che hanno sempre bisogno di lui, che vanno sempre in cerca dell'amore. La costatazione del mio peccato, però, non deve venire da motivi moralistici, ma da un incontro con Dio; è vedendo il suo amore che io scopro il mio egoismo, è vedendo la sua limpidezza che io scopro la mia bugia, è vedendo la sua purezza che io scopro la mia impurità. È il confronto con Dio che rivela la mia vita; questo incontro/confronto è anche il fondamento di qualunque comunità, di qualunque convivenza, di qualunque incontro, di qualunque amore.
Allora come costruire e vivere la nostra comunità?
Come sempre, unica e sola è la risposta: Gesù è l’immagine del Padre, Gesù è il modello di ogni creatura, quindi solo Gesù può essere il modello della vita di amore tra gli uomini. Però a seconda di «chi è per noi Gesù», a seconda dell‘esperienza che abbiamo fatto del Figlio dell'uomo, saremo portati a realizzare nello stesso modo la nostra esperienza comunitaria. Allora chi ci rivelerà questa comunità a immagine di Gesù? Non saranno i ragionamenti umani a costruire la comunità di amore a imitazione del Signore Gesù, ma sarà la rivelazione del Padre, e davanti a lui dobbiamo porci in atteggiamento di preghiera, cioè di attesa. La nostra opera consisterà nel portare dentro ciascuno di noi l'immagine del Figlio di Dio perché più profondamente possa penetrare nella vita della nostra comunità e dunque nella Chiesa, e divenire così la comunità dell'amore incarnato; la comunità eucaristica.
MAURO PAZZI
Seminarista del 3° anno di Teologia