Rendere ragione della speranza è mostrarla a chi non ne ha idea; ma soprattutto, è dirla a chi non ne vede più l’utilità. Tanti cristiani hanno lasciato la fede nel privato del cuore come lo imponevano i modernisti e gli illuministi. Si accontentano di vivere nel segreto, dimenticando questa parte importante de la comunicazione. Perché una fede che non parla, che non dice se stesso o che non racconta il suo cammino, il suo oggetto, non esiste. La fede, l’esperienza della fede per sopravivere deve essenzialmente comunicarsi cioè dire se stessa, essere trasmessa al mondo. Se non si racconta più il fatto Gesù, se Gesù non dice più cos’è a questo tempo attraverso la voce dei credenti, come crederne ancora? Sarebbe una eredità del passato, mischiato tra le mille cose della vita. È ovvio che non si tratta di fare la pubblicità, o di organizzare delle serate di mossa al nome di Gesù, pero di dire la fede cristiana a un mondo che non se ne intende più. Verrebbe adesso la domanda se uno o una che vive in chiusura può comunicare la sua esperienza della fede? Credo di sì. Un monastero, una vita consacrata è come una luce che illumina un’aula; tutti entrano, vedono e si sentono al caldo. Il silenzio della consacrazione parla al mondo. La vita vissuta in un certo modo parla anche se il soggetto sta zito.
La fede è comunicazione. Il suo perché non è dire un preteso o una convenienza; ma un chiarire di cos’è ci sostiene, ci trattiene e ci mantiene così attaccati dopo più di 2000 anni di storia. Addirittura salterebbe fuori questa domanda: come arrivare oggi ad un Gesù che non sia soltanto più un discorso o un’attrazione ma l’essenziale della vita prima di tutto per i cristiani?